Sesso, vodka e il piano di Vagif
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Era il 1981 e faceva freddo, molto freddo.
La città era coperta di neve ed il ghiaccio, proiettandosi verso terra dalle grondaie, pareva voler sfidare la gravità affusolandosi in lunghi denti aguzzi.
Chiesi ad un passante in uno stentato inglese dove fosse una cabina telefonica e questi con un accento altrettanto improbabile mi indicò una sorta di Babbo Natale dal grosso ombelico.
Era rimasta solo un'apertura per infilare il braccio, prendere la cornetta e comporre il numero, il resto era avvolto da un gelido manto biancastro.
Il Natale in effetti, era passato da pochi giorni e tutti si preparavano a festeggiare il più pagano Capodanno con fiumi di vodka da far confluire nei laghi del proprio stomaco.
Chiamai Lars, un mio caro amico danese, studente di lingue, incontrato per caso qualche giorno prima in un negozio di musica nel centro di Mosca. Gli confermai l'appuntamento per la festa ed insieme ridemmo ancora di come il caso ci avesse fatto inaspettatamente ritrovare.
Furono le nostre mani a scontrarsi per prime. Nella calca del negozio, avevano trovato la medesima strada verso uno scaffale di dischi rispondente al nome di Vagif Mustapha Zade. La nostra comune passione per la musica azerbaijana ci aveva entrambi spinto verso questo grande pianista, originario di Baku.
La sorpresa di ritrovarci lì, a contenderci l'ultima copia del vinile, fu enorme. Per un attimo ci sembrò di essere sospesi nello spazio, come in un limbo geografico, e non certo nella capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, a due passi dalla celebre Piazza Rossa.
"Ma questa non è la Danimarca", balbettai,
"giuro che non sono in Italia", mormorò Lars, come stordito.
Ci riprendemmo dalla sorpresa davanti ad un thé caldo, con il disco sotto il braccio, che finimmo per comprare in società.
Mi invitò a passare il Capodanno a casa sua dove avrebbe radunato un po’ dei suoi amici della scuola di lingue. Magnifico, pensai, e mi offrii di preparare una cena tipicamente italiana, così, per riscaldare l'ambiente con un po' di sole del sud.
Quando riattaccai la cornetta dentro l'iceberg, andai a comprare quello che era possibile, per rendere verosimile l'arte gastronomica italiana nel mondo, non immaginando che, forse, ben altre arti avrei dovuto esercitare la sera seguente.
Il giorno dell'ultimo dell'anno, mi recai a casa del mio amico nel pomeriggio e dopo aver messo in moto le magiche note di Vagif sul piatto dello stereo, cominciai a darmi da fare con i mestoli della cucina.
Lars mi presentò Zira, una ragazza minuta e dalle molte lentiggini, con degli occhi da gatta attraenti come calamite, la quale si offrì di aiutarmi. La bella Zira parlava solo russo e cominciava a masticare qualche parola d’Afgano, che però, non vi nascondo, mi era di scarsissimo aiuto. Fortunatamente la gestualità ed il linguaggio del corpo ci giunsero presto in soccorso, come del resto succede ad ogni latitudine dove l'esigenza di comunicare é più forte dell'ostacolo linguistico. Fu anzi assai divertente creare pantomime elaboratissime anche per la semplice richiesta di un pizzico di sale. Trascorremmo quelle ore ridendo come matti.
Lars nel frattempo, complice del nostro stato d’ebbrezza, ci riforniva continuamente di bicchierini di vodka da trangugiare in un sol fiato.
Ricordo che la musica del grande pianista intonava strazianti melodie dall'ascendenza caucasica, che con Zira terminammo le operazioni culinarie e che mi sdraiai completamente sbronzo sul divano del soggiorno. La tavola era apparecchiata, ma non mi ci sedetti mai. Dalla mia posizione vedevo Breznev che dalla televisione senza audio, annunciava con un discorso ufficiale l’arrivo del nuovo anno. La mia testa, che penzolava dal cuscino lo vedeva orizzontalmente come se il Presidente fosse diventato un acrobata senza gravità. La musica intanto era forte, piena, meravigliosa, ed io scivolai dall’effervescenza etilica all'oblio del sonno.
Il risveglio fu inquietante, divertente, imbarazzante. Aprii gli occhi ed ero tutto nudo, su di un letto che sfiorava il soffitto, con Zira che, nuda anche lei, dormiva stringendomi il petto. Sentivo il respiro dei suoi sogni e percepivo quel suo caldo seno che premeva contro il mio fianco. Tentai allora di ricordare, di correre indietro con la memoria per assaporarmi dei momenti bellissimi, che avrei ricordato per tutta la vita. Ma...niente... dalla mia confusa testolina, riemergeva null'altro che Breznev in orizzontale, che muoveva le labbra come un pesce. Quando Zira si svegliò, troppe erano le domande che avrei voluto farle. Che ne era stata della cena? Chi mi aveva spogliato ed issato al piano superiore del letto a castello? Dove erano tutti quanti? E sopratutto, che cosa diavolo era successo fra me e lei quella notte?
Tutte domande che rimasero senza risposta perché non trovarono mai neanche la strada della formulazione. Grandi sguardi di sottintesi...sì, una colazione consumata da amanti consumati... sì, ma null'altro che maliziose supposizioni, dalla consistenza di un fiocco di neve.
(Anno 2 n� 9)
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Sfida a Madrid
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Dopo aver attraversato infiniti saloni con il naso all'ins� e gli occhi rivolti ai capolavori di Velasquez, Bruegel il vecchio e Rubens, usciamo esausti dal Museo del Prado.
Sono con Elvira, la mia dolce met�, felice di aver finalmente conquistato quell'accento sulla a, ma caparbio nel continuare a considerarla la mia meta quotidiana. Insieme ci incamminiamo in una Madrid al crepuscolo, dove si confondono le luci artificiali, con gli ultimi raggi di un sole che se ne va altrove.
Passiamo da Plaza del Sol, tanto turistica quanto affascinante, multicolore piazza della citt�.
Ancora una volta con il naso all'ins� veniamo attratti da una insegna: Museo del Jamon, ovvero museo del prosciutto.
Non � incredibile ? Dall'eccelso spirito dei grandi pittori del passato alla carnale tentazione del maiale. Entriamo. Una variet� disarmante di prosciutti appesi, ci invita a fermarci e ci viene poi servita con del pane e del buon vino.
Quando usciamo, siamo brilli al punto giusto per festeggiare un sabato sera di follie.
A notte fonda, dopo un girovagare ubriaco, entriamo in una taverna flamenca, un luogo di ritrovo dei ricchi gitani della citt�.
A volte, ci dicono, capita che si mettano a cantare, accompagnati da qualche musicista di passaggio. Alle pareti sono appese le fotografie di grandi artisti del flamenco, ritratti insieme al gestore del bar, che in quello stesso momento ci sta servendo il vino. L'ambiente � accogliente e le premesse incoraggianti ma ancora non succede nulla. Ci sono, � vero, dei gitani seduti a un tavolo, ma bevono senza null'altro fare.
Poi, sommessamente, qualcuno inizia a battere un ritmo lento e complice. A quell' incedere si aggiunge lo schiocco di altre mani, la cadenza si rafforza e si leva un canto. Il disordinato fragore della gente si affievolisce in un brusio e tutti nella taverna si dispongono all'ascolto.
E' un vecchio, che con un filo di voce intona un melodia struggente, come un invito alla musica. Un signore, che avrei potuto scambiare per un turista austriaco sfodera una chitarra ed inizia ad accompagnare il vecchio.
Tutti ormai battono le mani e sottolineano con il convenzionale ol�, i passaggi pi� raffinati.
Il "turista austriaco" si rivela essere un chitarrista di prima grandezza, uno dei pi� conosciuti in Spagna. In effetti scrutando il muro, lo vedo affacciarsi da una foto, con tanto di dedica, insieme al padrone della taverna.
L'atmosfera comincia a scaldarsi, a turno si passano il canto, improvvisando melismi che sono pregni di mare, di Africa e di coste mediterranee; di una bellezza inaudita. Le voci, sempre sforzate di gola, anni luce da qualsiasi impostazione accademica, sono sensibili e tese. Tutte perfettamente coerenti con i volti degli uomini cui appartengono.
Nel gruppo di gitani si coglie una certa rivalit� fra due pi� giovani cantanti. Uno sembra essere pi� protagonista, si alza e si rivolge all'altro in tono di sfida. L'altro, dalla struttura fisica imponente, sorride, ma quando canta fa veramente male. Ha una voce alta, vibrante, che scuote la sala. La esibisce e poi ricomincia a sorridere.
Gli occhi dei due, si fissano quando cantano e si ignorano quando qualcun'altro prende la melodia. Non capisco cosa dicono, ma sono sicuro, istintivamente, che si sfidano.
Probabilmente il terreno del confronto non � quello musicale, il canto � solo un mezzo per dirsi cose che altrimenti avrebbero scatenato una rissa. Del resto in moltissime culture i canti vengono utilizzati per risolvere questioni di convivenza elevando il contendere in quella zona franca che � la musica ed il suo carattere virtuale.
Non � la realt�, ma la rappresentazione di questa, e all'interno di quel cerchio magico tutto � concesso.
La tensione � forte, la sensazione � quella di essere penetrati da spettatori casuali nell' intimit� di un mondo chiuso, con delle regole precise, al cui interno si muovono con destrezza le provocazioni, sempre al limite della rottura effettiva. E ci andiamo molto vicini quando vedo che il pi� piccolo ma aggressivo dei due, scosta la giacca e penetrando l'altro con lo sguardo, termina il suo gorgogliante melisma mostrandogli il coltello appeso alla cintola.
La reazione degli altri gitani � immediata, si alza il vecchio ed inizia a cantare guardando ora l'uno ora l'altro, sussurra, ma non si sente altro che la delicata chitarra che accompagna. Tutti ascoltano con il fiato tirato e quando il melodiare si spegne nei rituali ol�, la partita tra i due sembra essere stata chiusa, almeno per quella sera.
Il battito ritmico delle mani si fa pi� vigoroso, una donna si alza e nell'approvazione generale inizia a danzare fra le sedie ed i tavoli.
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La fata nera del jazz club
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Corre l'anno 1978 ed io corro in autostop sulle strade dell'Europa. Arrivo a Londra e decido di fermarmi.
Mi sistemo in un fascinoso e fatiscente scout (casa occupata) in quel di Brixton. Molti punk, molti freaks e molta gente interessante e strana.
Un giorno girovagando per la città mi ritrovo davanti al famoso Ronnie Scott Jazz club. Quella sera avrebbe suonato Dizzy Gillespie.
Sbircio dentro e vengo sorpreso dal buttafuori. Un tipo alto, vestito stile Chicago anni venti.
"Cosa vuoi mocciosetto?"( vi faccio una sommaria traduzione dello slang usato dall'uomo)
" Ma davvero stasera suona Dizzy Gillespie? Io vado pazzo per la sua musica" rispondo io.
"Si certo" fà l'uomo ed aggiunge"ma se non hai soldi da spendere sparisci"
Il mio aspetto e i miei quindici anni non dovevano avergli fatto una grande impressione e i suoi toni divennero progressivamente più bruschi. Quando però stà per mettermi le mani addosso per spingermi fuori, ecco che arriva una Fata.
Era Nina, la manager del locale, una donna bellissima, alta, mora e dallo sguardo dolce.
L'uomo, mostrava nei suoi confronti gran rispetto, quasi al limite di una certa perversa sottomisione, o così almeno mi parve.
La donna si rivolse a me" Cosa vuoi bambino?".
Gli esternai il mio profondo amore per il Jazz e per quel fantastico trombettista.
"Cos'é, non hai i soldi per il biglietto?" incalzò
Le dissi che era proprio così, che stavo ancora cercando un lavoro e che avrei fatto qualunque cosa per assistere al concerto.
La donna, dopo aver gettato un’occhiata all'uomo che imbarazzato assisteva alla scena, mi disse: "bene, torna stasera e mi prenderò cura di te personalmente"
Tornai a casa e raccontai tutto agli amici.
Quando la sera, rimuginando su quel "personalmente", mi recai al locale, sulla porta, tra la folla che al botteghino tentava di accaparrarsi i pochi biglietti rimasti c'era l'energumeno in gessato grigio. Gli chiesi di Nina. Credo che volentieri mi avrebbe schiacciato come una zanzara fastidiosa se solo avesse potuto, ma del resto anche io l'avrei con piacere ricacciato in uno di quei film di gangsters e fatto morire alla prima sparatoria. Quando arrivò la donna, elegante e sorridente i miei pensieri si disposero al meglio.
Entrammo nel locale già gremito di pubblico, lei stessa mi accompagnò al miglior tavolo in prima fila, con lo champagne già nel secchiello del ghiaccio e la sedia simile ad un trono. Le luci si spensero, il concerto inziò ed io passai una delle serate più magiche della mia vita.
Ordinai senza pudore nè misura varie altre bottiglie, mi feci portare delle sigarette e mi godetti la serata. Dopo il concerto venni presentato a Dizzy, che fù con me incredibilmente gentile.
Quando a fine serata, ringraziai Nina, le dissi che avrei desiderato poter lavorare in quello splendido posto. Lei mi guardò divertita e mi disse che mi avrebbe assunto dal giorno dopo.
Al momento di tornare a casa mi chiamarono un taxi privato, gli unici disposti a portarti a Brixton di notte, ed io rimasi ad aspettarlo fuori dal locale già chiuso. Mi assopii.
Poi, come in un sogno, venni illuminato dai fanali della vettura. L'autista, un anziano signore con i baffi all'inglese e la divisa immacolata, scese e mi aprì la porta della sua Rolls Royce, facendomi accomodare. Alla mia incredulità rispose lisciandosi i baffi" Si una delle poche signore ancora in vita" riferendosi all'automobile.
Mi portò a Brixton. Sotto casa, lo pagai ed insistetti per una mancia extra. Purtroppo non avevo più soldi ma lo convinsi a pazientare che sarei andato a chiderli alla gente di casa. Entrai come un razzo, svegliai tutti e li trascinai fuori. Alla vista di quella meraviglia e di quel signore tutto impomatato tutti si misero a cercare qualche spicciolo per la mancia, mentre girando intorno a quella "bella signora" ne sfioravano con il dorso della mano la lustra carrozzeria.
Lo chaffeur venne ricompensato più con l'ammirazione di tutti che con i pochi penny recuperati ed andò via soddisfatto.
La mia permanenza stipendiata al jazz club fu straordinaria. Potei ascoltare grande musica, e ricevetti lezioni gratutite dai vari batteristi che si avvicendavano su quel prestigioso palcoscenico.
Ma dov'é la morale di questa storia vissuta nella mia adolescenza? Possono bastare l'ingenuità, la sfrontatezza, la passione, da una parte e la tenerezza, la solidarietà, la voglia di stupire dall'altra, a giustificare il racconto di questo ricordo? Forse no, ma il senso di magia che si può creare quando si rompono certi schemi, quello sì; e vi assicuro che a distanza di quasi ventidue anni quel gesto di Nina e quell'autista folle ancora rimangono nei miei ricordi e sopratutto nel mio cuore.
(1998 Cous Cous n° 7)
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Appunti di viaggio nel ritmo
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Era il giorno della grande finale. Le due migliori squadre di calcio senegalesi si contendevano il titolo di campione.
L'euforia dell'attesa era tangibile anche nella casa dove abitavamo.
Ognuno si dava da fare a decorare un tamburo, a tirare una pelle o a costruirsi delle bacchette per i Sabar che avrebbero presto suonato. Le donne cucinavano dentro grandi pentoloni, riso in abbondanza per tutti.
Noi eravamo ospiti di Badù N'Dyaie e della sua famiglia. Una famiglia di Griot che ogni giorno dopo aver officiato un matrimonio, un battesimo o qualche altro rito si ritrovava la sera, unita a suonare e cantare per il piacere proprio e di tutta la comunità.
Quel giorno era proprio la squadra di Louga, che, in casa, sfidava quella di Dakar. La famiglia N'Dyaie, nativa di Louga da diversi secoli, avrebbe naturalmente "officiato" anche questo rito.
Portammo decine di tamburi allo stadio. Ogni tanto nella sabbia della strada trovavamo qualche vecchio ferro di cavallo che raccoglievamo come portafortuna; dopo i primi cinque ci rinunciammo, ridonandoli a quel terreno che comunque ne aveva un gran bisogno.
Quando entrarono le squadre fu una vera emozione. Non perché fossimo particolarmente appassionati di calcio (in effetti anche in Italia ero entrato in uno stadio solo per sentire musica), ma per l'energia, i colori e il ritmo dei tamburi che gia iniziavano a scaldarsi.
Le autorità erano schierate (qualche ministro del governo, qualche politico locale etc...). Io e i miei compagni italiani eravamo gli unici bianchi ed eravamo circondati dall' affetto e dalle attenzioni di tutta la famiglia, oltre, naturalmente, alla curiosità ingenua e morbosa al tempo stesso, di tutta l'altra gente.
Ora, dovete sapere, che alcuni di noi suonavano insieme a Badù in Italia in un gruppo di sole percussioni eseguendo brani dal repertorio tradizionale senegalese; inoltre ogni giorno passavamo il tempo ad apprendere nuovi ritmi e ad approfondire le varie tecniche sui vari tamburi. Insomma non eravamo propriamente degli sprovveduti...malgrado ciò non ci era mai capitato di applicare quei ritmi ad una partita di calcio.
Vi fu il fischio d'inizio e la musica crebbe d'intensità.
Ogni minimo sviluppo dell'azione in un senso favorevole alla squadra di Louga significava uno stravolgimento totale della base del ritmo. Nulla era più come la conoscevamo, non appena riuscivamo ad entrare nel tempo con la nostra specifica figura ritmica , questo cambiava e si faceva ora vorticoso, nella corsa verso il goal , ora lento ma inquieto nei momenti non favorevoli. La famiglia insomma suonava veramente, era tutt'uno con l'azione; il ritmo era il respiro della squadra e noi arrancavamo col fiato corto per stargli dietro.
La nostra salvezza fu "petit max", un fratellino di Badù di cinque anni , a cui ad ogni cambio di tempo chiedevamo soccorso, ed il quale, divertito, ci mostrava la parte da eseguire, per poi tornare ad immergersi nel ritmo dei suoi fratelli con spericolate invenzioni virtuosistiche.
Ricordo ancora oggi molto bene quell'occhiolino che ci schiacciava, quell'espressione dolce e fiera di un bambino che sapeva molto senza saperlo e si meravigliava che un qualcosa per lui così naturale, potesse risultarci cosi difficile da capire e al contempo interessarci tanto. Le donne, le bambine, e anche le donne/bambine (spesso a quindici anni hanno già un paio di figli), cantavano in coro, incalzando il ritmo e i giocatori ed elevando di molto il già alto phatos generale. Battevano le mani, anche, tutte insieme, all'unisono, marcando il ritmo dei tamburi in punti insospettabili, rivelandoci , senza saperlo (o meglio, avendone una coscienza molto profonda), tutta la poliritmia insita nella struttura del ritmo africano.
Nei momenti di maggior parossismo qualcuno si scatenava in quella danza breve e intensissima fatta di salti ed ammiccamenti, che mi ha sempre fatto pensare al modo in cui i leoni si accoppiano: pochi secondi intensi ripetuti centinaia di volte.
Quando anche noi, ubriachi di ritmo, ci lasciavamo andare alla danza tentando di imitarne le cadenze, risolini maliziosi e divertiti ci facevano da sfondo e noi , consci di ciò, amplificavamo l'impaccio e la goffaggine, in fondo felici di divertire.
La gente del Senegal, per la mia esperienza, è gente molto pacifica, più incline a condividere che a contrapporsi, pronta a stupirsi e a divertirsi esercitando una curiosità sincera, che non esclude, ma semmai affratella.
Una lezione di musica quindi, una lezione di vita, un calarsi dentro il ritmo come raramente accade, una grande emozione regalo di Badù, offertaci senza saperlo (o meglio...).
(1998 Cous Cous n° 2)
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Il bus sonoro di Bahia
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Il caldo era soffocante. Di fronte a me luccicava l'Oceano Atlantico. Quell'immensa distesa d'acqua su cui navigarono in tempi remoti navi cariche di disperata umanità, la cui provenienza era con tutta probabilità l'isola di Gorè in Senegal, sede del centro di smistamento di tutti gli schiavi destinati alle Americhe. La leggera brezza marina non era sufficiente ad alleviarmi quel senso di stordimento, quella pesantezza dei passi che sospingevo ansante verso la fermata dell'autobus. Le lunghe file di palme tutte curve, piegate da un vento che ora latitava, regalavano ai miei occhi quel tipico scenario da cartolina illustrata delle agenzie di viaggio.
Mi recavo in città per fare compere e trascinavo con me delle pesanti borse contenenti tamburi, che avrei dovuto consegnare a degli artigiani per delle modifiche.
Quella mia permanenza a Salvador di Bahia in Brasile (circa sei mesi), fu veramente illuminante, da molti punti di vista. La musica e le percussioni in particolare furono il centro gravitazionale intorno al quale ruotavo. Molte delle intuizioni sul rapporto fra musica e socialità, oltre che da alcuni libri sull'argomento, mi vennero allora, da quel mio soggiorno brasiliano.
Dopo una lunga attesa vidi finalmente affacciarsi in lontananza il mio autobus. Sembrava più sgangherato del solito, o meglio sembrava che sobbalzasse ...oppure ondeggiasse... oppure si inclinasse ora da un lato ora dall'altro. Mano a mano che si avvicinava mi rendevo conto che non era nè la fantasia né un colpo di sole; quell'autobus era effettivamente scosso da una forza interna che permaneva misteriosa alla mia comprensione.
Quando infine giunse davanti alla fermata, non potevo credere ai miei occhi e alle mie orecchie! All' interno dell'autobus era in corso una frenetica batucada, con il ritmo base del Surdo suonato a pugni chiusi sui vetri, (in modo da produrre frequenze gravi), e la parte del tambourine suonata con monete o altri piccoli oggetti metallici sui passamano dell'autobus(per le freqenze alte).
Salii con le mie borse e mi sedetti. Affascinato da quello che stava accadendo non mi venne in mente di unirmi alla festa se non come estasiato spettatore.
Alla fermata seguente salirono molte persone; civilissima usanza locale vuole che chi é seduto, accolga sul grembo i fardelli di chi é costretto a restare in piedi. Salì una di quelle bahiane che con fornelli, pentoloni ed ingredienti vari cucinano agli angoli delle strade. Normalmente vestite di bianco e molto imponenti nella stazza queste donne sono icone viventi dell'Africa di bahia, non solo perché cucinano cibo africano (carurù con vatapà etc.) ma anche perché spesso officiano i riti del Candomblé.
Questa donna che salì sull'autobus, dopo aver rifiutato il posto che le offrivo, mi chiese con un lieve ammiccare degli occhi il permesso di accomodare i suoi fornelli e le sue pentole sulle mie gambe, dopo di ciò si immerse anche lei nella samba che vorticava.
Mi ritovavo quindi sommerso dalle mie borse più tutti gli arnesi della bahiana, totalmente soggiogato da quell'atmosfera gioiosa e partecipata, quando tutto d'un tratto il guidatore dell'autobus, ormai incapace di trattenersi oltre, dopo una brusca frenata fuori fermata, tirò più volte il grande freno a mano che aveva alla sua destra e dopo aver raccolto da dietro il suo sedile due lunghi arbusti (evidentemente avezzi a questi raptus) si immerse anch'egli nella samba con delle pregevolissime variazioni ritmiche eseguite con grande energia sul volante dell'autobus.
Quando giungemmo in città le mie considerazioni accademiche sul rapporto fra musica e socialità avevano subito un forte scossone. In realtà quella scena veniva a conferma di certe tesi, ma il passaggio dall'accademia alla realtà é sempre sconvolgente. Suscita emozioni che dfficilmente si riescono a costringere nelle pagine di qualunque libro.
In ogni caso un'altra lezione di musica, un'altra lezione di vita.
In quei luoghi dove sono ancora vive le tradizioni popolari la gente percepisce la musica come uno strumento di comunicazione quotidiano. La si fà e basta, non la si studia, la si apprende così come si apprende a parlare, a camminare o altro. La figura del "Professionista" li é molto rara(non a caso molti di coloro che vivono la professionalità della musica sono stranieri,argentini sopratutto), probabilmente un suonatore di pandeiro, saprà suonare solo quello e magari solamente quegli specifici ritmi del proprio quartiere, ma cosa importa, quando il senso della musica é di socializzare e rendere coeso il gruppo di appartenenza?
(1998 Cous Cous n° 3)
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La danza nella città dei morti
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Seguo il flusso di gente che procede in modo disordinato. Il marciapiede é troppo stretto per contenere il fiume di persone nel quale sono immerso, la strada é completamente invasa da macchine e fra queste si insinuano i pedoni più frettolosi risalendone la corrente.
Carrettini a mano, carichi di piccole mercanzie, sfidano le leggi della fisica, conquistandosi il proprio spazio di marcia con grandi accelerazioni e brusche frenate. Un certo modo di fischiare o un ritmico tintinnare metallico mi avverte del loro arrivo e mi concede giusto il tempo di scansarmi per non essere travolto.
Mi accorgo che i semafori sono perlopiù decorativi e che l'unico codice stradale da tutti rispettato, dà la precedenza a chi suona il clacson per primo. Sommerso dal flusso sonoro della città, attratto e stordito dalle urla dei venditori che alzano la propria voce come un canto, vengo dirottato dalla folla avanzante verso una Moschea.
L'ora della preghiera é appena stata annunciata dal Muezzin. L'invocazione "Alla Akbhar" (Allah è immenso) viene diffusa da migliaia di altoparlanti sparsi per la città, seguita poi dal melodico salmodiare del Corano. Chi non può andare alla Moschea, si inginocchia sul posto e prega rivolto verso la Mecca.
Mi trovo al Cairo, gli altri del gruppo sono appena ripartiti per l’Italia. Insieme abbiamo tenuto due concerti in un teatro stracolmo di gente felice e festante. Noi dei Novalia, abbiamo condiviso lo spettacolo con un affiatatissimo gruppo egiziano, fondendo i rispettivi brani ed avvincendo il pubblico.
Terminati gli impegni con la band, ho deciso di trattenermi qualche giorno ancora, felice ospite di un caro amico italiano che, spinto dalla passione per la musica e dalla moglie antropologa, si divide tra Roma e l’Egitto.
Dopo gli intensi giorni di prove, di appuntamenti, di gite turistiche e di spettacoli, ho potuto decidere di abbandonarmi alla città, alle sue vie grandi e piccole, ai suoi colori, ai suoi odori e alle sue puzze, al suo caos ammaliante.
Quando sospinto dalla massa di gente sto per raggiungere il luogo di culto, un suono di tamburi cattura la mia attenzione e mi conduce sul marciapiede opposto alla Moschea, dove un assembramento di persone fà capannello. Mi intrufolo fra la gente e scorgo una scena assai inquietante.
Una ventina di fedeli, in piedi e vicini fra loro, si muovono con ritmo ripetitivo, roteando la testa e il busto e raggiungendo, nel piegarsi, il ginocchio destro con la spalla opposta.
Sono persone comuni: c'é una signora che ha poggiato la spesa poco più in là, un giovane impiegato con cravatta, forse qualche pensionato, dei ragazzi. I tamburi incalzano il ritmo suonando vicino alla testa dei devoti e seguendone i movimenti reiterati. Gli astanti osservano la scena, persi anche loro nel divino amore per Allah e, a loro modo, partecipi del rito. Vanno avanti a lungo, con gli occhi rivolti all'indietro e le mani verso il cielo.
Dopo circa un'ora decido di uscire dal gruppo. Sono ancora sconvolto dall'intensità di ciò cui ho assistito, ma mi colpisce anche la dimensione di normalità, quasi di quotidianità, che percepisco nei comportamenti delle persone.
Mi rendo conto della mia incapacità di cogliere il senso profondo di quella devozione, sebbene non mi riesce difficile capire l'esigenza spirituale che anima un tale abbandono. Non condividere non vuole dire non comprendere.
Decido di dare una direzione al mio vagare e torno verso casa. Abito al Cimitero. Può sembrare strano, ma é così. C'è un quartiere al Cairo che si é sviluppato perché coloro che custodivano i morti, vi costruivano sopra le proprie case, per sé e per la famiglia. Ora ogni tomba ha intorno a sé una casa, anche se non più necessariamente abitata dai custodi. I parenti quando vanno a trovare i propri morti, bussano alla porta e si intrattengono intorno al defunto con un thé offerto dagli inquilini.
Nell’ appartamento dove abito, spesso mi capita di tagliare la cipolla per il sugo su un magnifico marmo tombale. Potrebbe apparire dissacrante ma non è questa l’intenzione. E’ la bizzarria di un quartiere che, essendo immerso in un contesto paradossale, porta anche me ad utilizzare come oggetti quotidiani, ornamenti concepiti per altri e più sacri scopi.
La Città dei Morti segna il confine tra il deserto e quella Cairo da quattordici milioni di persone. Nonostante alcuni taxi si rifiutino di portartici , perché considerata malfamata, la zona è estremamente accogliente e ricca di gente molto ospitale.
Il mio amico, da cui sono ospite, é una persona straordinaria. Tutto il quartiere gli vuole un gran bene, ed io che vengo da lui presentato alla comunità, beneficio della cordialità e della gentilezza di tutti. Una sera mi porta in un posto dove la trance diventa disciplina.
I Dervisci Rotanti affinano la propria devozione accompagnati da abili musicisti. Ci sono fino a dieci suonatori di Mazar, Duff e Sagat a volontà, un Rabab ed altri strumenti ancora. Un cantante intona raffinati melismi, i Dervisci iniziano a vorticare e anche qui i musicisti gli girano intorno.
E' impressionante la grande accuratezza ritmica con cui vengono eseguite le variazioni sul tempo, considerata anche la straordinaria potenza di suono con cui vengono prodotte. Fortemente emozionato, per un attimo sono portato a pensare che quella musica possa indurre da sola a stati di alterazione psichica, ma le ispirate letture del buon Rouget, etnomusicologo di fama, fortunatamente mi giungono in soccorso.
Il fenomeno della trance è un fatto meramente culturale, supportato da elementi indispensabili come la musica, il contesto, il pubblico ed altri ancora. Senza il collante della Fede, qualunque essa sia, questi elementi coadiuvanti la trance non potrebbero mai da soli alterare la psiche, sebbene è indubbio che una musica espressamente concepita per gli stati di alterazione abbia comunque una forza intrinseca straordinaria.
����������� Il mio approccio laico alla vita e alla musica mi porta piuttosto a coltivare altro che non la fede. Conservare una prospettiva critica, e preservare quel dinamico equilibrio fra la passione per la ragione e le ragioni della passione. E’ non è roba da poco.
(1998 Cous Cous n° 5)
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London Calling
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Il telefono squillava con desueta insistenza, con quel marcato accento d’ostinazione che rivelava la natura d’urgenza della telefonata. Raggiunsi l’apparecchio prima del fatidico quarto squillo, quello in cui non richiesta né invitata si inserisce automaticamente la segreteria telefonica.
Qualche secondo di ritardo e la conversazione sarebbe stata irrimediabilmente viziata dallo sgradito ospite meccanico, almeno fino al sopraggiungere del bip risolutivo e liberatorio.
La voce, all’altro capo del filo suonava familiare, con uno strano accento straniero e con quella grande creatività nella costruzione sintattica di chi ha acquisito la lingua in maniera non formale.
Era Abraham Afewerki e chiamava da Londra. Un caro vecchio amico, ispirato cantore delle traversie del popolo eritreo e sublime suonatore di Krar. Con lui avevo registrato giusto dieci anni fa un bel cd in cui, con le sue canzoni ci insegnava la storia della guerra per la liberazione dall’Etiopia, il suo esodo di bambino attraverso il deserto verso Khartoum, ed il suo arrivo in Italia.
Un' esperienza che conservavo nel cuore, unita al ricordo di una persona sensibile e di grande talento.
Il tono della sua voce però tradiva la presenza di un problema la cui soluzione evidentemente tendeva a coinvolgermi direttamente. Nel corso di questi anni, complice anche l’avvenuta proclamazione d’indipendenza dell'Eritrea, la sua stella aveva cominciato a brillare sempre più luminosa, divenendo per il suo popolo un punto di riferimento importante, grazie alla sua musica e ad i suoi testi coraggiosi e poetici. Insomma, nel frattempo Abraham era diventato molto famoso nel suo paese, e dopo aver stabilito la sua residenza negli Stati Uniti, aveva cominciato a fare tournées in giro per il mondo per esaudire la grande richiesta di spettacoli della sua gente.
I fatti in sostanza erano questi: il suo batterista americano per ragioni familiari era dovuto ripartire improvvisamente per Washington lasciandolo alla vigilia di un importante concerto al Racket Complex di Londra, privo di drumming. La sua richiesta era quella che io prendessi seduta stante un aereo e lo raggiungessi a Londra per risuonare quei pezzi che dieci anni prima avevamo inciso in studio. Ebbi un sussulto, e le prove? Quali prove, mi rispose. Capii la gravità della situazione e partii subito per Londra.
Arrivai e mi portarono subito al sound check, conobbi gli altri musicisti che mi incoraggiarono a non preoccuparmi, che la musica sarebbe scivolata via da sola e che la memoria mi sarebbe tornata via via che si suonava. Avevano ragione.
Sarà stata la tensione per l'imprevedibile esito del concerto, oppure la gioia di ritrovarsi insieme dopo tanti anni, o ancora il carattere di eccezionalità dell'evento che registrava il tutto esaurito già da qualche giorno. Forse fu il magico aiuto invisibile di un angelo custode; non so, ma di sicuro quella che ne sortì fu una serata davvero entusiasmante.
Migliaia di persone ballavano e gridavano, l'intero teatro si muoveva al ritmo della "waila". Io mi sentivo il tramite di un'energia più grande di me, da cui mi facevo trasportare deliziato. Era come se osservassi la scena dall'alto, volando sul palco e sul pubblico, ma in realtà stavo suonando, stavo fornendo suono a quel ritmo che vagava nell'aria. Insieme a me, dei compagni d'eccezione, che dopo anni di guerra e di sofferenze per me inaudite, affondavano nei loro strumenti l'apparente contraddizione di un impeto sempre al limite dell'acme, ma mai privo di controllo. La simbiosi che s'era creata con la gente che ballava era tale, che a volte si confondevano i ruoli, ed io percepivo tutto quel movimento sotto il palco come il vero motore di quel che stavo suonando. Come quando si fa bene l'amore ed i confini del proprio corpo perdono fisicità, stemperandosi e confondendosi con quelli del partner.
Verso la fine del concerto, avvolto da un mantello rosso, Abraham si gettò sul pubblico che lo fece camminare sopra le teste come fosse un uccello, indeciso se librarsi in volo o rimanere a vedere il mondo dalla prospettiva umana.
Lo so, lo so, voi penserete, uso di droghe? Niente, assolutamente niente. Il mio stato era sì alterato, ma dalla musica e dall'energia di un rito che si ripeteva ora in un teatro, ma che aveva origini antichissime. La trance della musica. Potevo percepire il carattere antico di certi movimenti che per secoli avevano marcato quei ritmi sensuali ma incisivi.
Dopo il concerto la festa continuò ancora a lungo. Intorno a me c'era tanta gente sorridente che mi offriva da mangiare e da bere. Abraham e gli altri mi chiesero di seguirli in Svezia dove continuava la tournée ed io accettai senza riserve. Travolto dai bagordi non dormì per nulla. Venni riportato dagli organizzatori all'aeroporto per il volo delle 9 per Roma, confuso e felice. La musica sarebbe ricominciata tra una settimana a Stoccolma ed io non sarei mancato.
(2000 Cous Cous n° 18)
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Quella notte di magia e morte
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Era festa grande quel giorno a Salvador di Bahia. Una festa che sarebbe andata avanti tutta la notta ed oltre.
Già mi preparavo a farmi travolgere dalla folla che, ballando, avrebbe seguito i camion musicali itineranti chiamati trii elettrici.
Generalmente, quando a Salvador si fa festa le persone sono così tante da non potersi muovere autonomamente, ma solo nell'onda generale e si accalcano intorno al lento incedere del camion prescelto.
Nelle grandi piazze, dove convergono i trii , le musiche si mischiano confondendosi e spesso la gioia prende il sopravvento su qualunque considerazione musicologica.
Già mi preparavo dunque ai piaceri dell’evento, ma non sarebbe stata quella, la mia nottata. Vengo coinvolto da alcuni amici belgi, conosciuti qualche ora prima, in un viaggio notturno all'isola di Itaparica, distante una mezz'ora di traghetto da Salvador. Quella, mi dissero, sarebbe stata la notte del Candomblé , ossia dei riti di possessione del sincretismo religioso afrobahiano.
Potevo tirarmi indietro? ovviamente no, la curiosità superava la voglia di festeggiare.
L'unica perplessità mi venne quando riconobbi nel bahiano che ci avrebbe accompagnato, lo stesso uomo che in piazza, durante il giorno vendeva certe boccette di unguento miracoloso, che curavano tutto, dalla gastrite al mal d'amore. Le boccette, che peraltro andavano a ruba, venivano pubblicizzate dall'uomo con due sistemi; il primo consisteva nel far tenere in mano agli avventori una lampadina accesa, alimentata tramite un filo, dalla corrente di un “pesce elettrico" contenuto in una valigia piena d'acqua; il secondo mediante l'introduzione di svariati serpenti vivi nel proprio bermuda all'altezza del sesso, così da creare un curioso effetto, diciamo così, di "live motion".
Scacciai le perplessità e prendemmo l'ultimo battello della sera per l'isola; quello di ritorno sarebbe stato solo la mattina seguente.
Quando attraccammo a Itaparica era il crepuscolo, prendemmo un passaggio da un camion, questa volta agricolo, che era imbarcato sul traghetto. Ci inoltrammo all'interno dell'isola tra i sobbalzi della strada dissestata, seduti sul piano di carico, con delle stelle enormi che ci guardavano dall'alto e una felicità che già trasudava dai nostri occhi. Il nostro uomo, bussò sul tettuccio della cabina di guida per segnalare al camion di fermarsi. Scendemmo, e ci avviammo a piedi nel fitto della foresta.
Presto iniziammo a sentire il suono dei tamburi e quando arrivammo così vicini da poter distinguere il vocìo, il nostro uomo andò avanti a chiedere il permesso di far assistere al rito dei "bianchi curiosi venuti dall'Europa".
Era per me la prima volta che assistevo ad un rito di possessione e credo che non potrò mai trovare le parole adatte a descriverlo.
Essendo la ricchezza e la complessità del linguaggio espresso in quei riti, tale da impedirmi una lettura su qualsiasi altro piano di quello emotivo, vedo ancora oggi vividamente, a distanza di dieci anni, quelle scene che arricchirono a lungo i miei sogni .
Ricordo di quei tamburi Atabaque che suonavano continuamente, il più acuto che manteneva l'iterazione del ritmo e quello grave che eseguiva tali ed elaborate variazioni da farmi perdere l'equilibrio; non dimentico quel ragazzo che posseduto dal suo orixà , nella foga della danza, si andava ferendo involontariamente con un coltello che aveva in mano; e che dire di quelle donne che con i caxixi suonati intorno al posseduto scacciavano via qualche maligno effetto collaterale; sento poi ancora in bocca il sapore di quell'intruglio di cose che, caldo caldo, mi veniva perentoriamente offerto dalle mani di una anzianissima donna che, con soli due denti, possedeva il sorriso più dolce del mondo.
Passammo tutta la notte in giro per l'isola e visitammo più "terrieri" dove si officiavano i vari riti del Candomblè. All'alba, con gli occhi gonfi e i passi pesanti tornammo al traghetto, il primo della giornata, che ci avrebbe riportato a Salvador.
Fu allora che ciò che stava per accaderci mi rimase veramente indelebile nella memoria. Ero seduto da solo a prua della nave guardando due pescatori in lontananza. Mano a mano che ci avvicinavamo le forme si facevano più distinte, erano due anziani che, immobili sulla loro barchetta, pescavano tranquillamente. Il battello procedeva dritto e veloce.
Quando mi resi conto che sarebbe stata piena collisione, iniziai prima a balbettare e poi a urlare incredulo verso la cabina di comando.
Fu questione di istanti e il traghetto travolse la barca. Mentre il traghetto fermava i motori, potei vedere il corpo di uno dei pescatori a faccia in giù che veniva raggiunto da un'altra barchetta.
Su questa solo un uomo, vecchio anche lui, che con tutta la forza che aveva in corpo, tentava di issare a bordo il moribondo, ma ad ogni tentativo questi ricadeva in acqua, riverso.
Intuì la disperazione di quell'uomo che malediva le sue poche forze che gli impedivano di salvare la vita all'amico. Alla fine vi rinunciò, accasciandosi esausto.
Quando infine giungemmo a Salvador, ogni singola persona che era sul quel traghetto portava la morte negli occhi. Scendendo sul molo avvertimmo subito un contrasto assoluto con la festa che ancora imperversava nelle vie di Bahia e che ci investiva della sua allegria,
con il suo chiasso e i suoi colori.
Attraversammo la folla lentamente, mentre questa spontaneamente si apriva come se percepisse che noi del traghetto, tutti con il medesimo sguardo intollerabile, fossimo degli alieni. Il frutto bizzarro di un destino capriccioso che gioca con la natura umana, così come dall'alto dell'Olimpo le antiche divinità greche, proiezioni degli uomini, usavano fare, per i loro perversi intrattenimenti, con i comuni mortali.
(1998 Cous Cous n°4)
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Tamburi e tatuaggi
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Era l’Estate del 1977. Partimmo in quattro, da Roma. Caricammo di quattro zaini, due tende ed altre amenità la126 rossa di Luigi, detto Bangue, e ci dirigemmo a sud. Obiettivo era il Marocco, via Palermo-Tunisi. Una sorta di parziale circumnavigazione del mediterraneo, con ritorno dalla Spagna e dalla Francia.
Traghettammo in una splendida notte stellata, passata sul ponte della nave a fantasticare sulle gioie del viaggio e dipanando quel filo della memoria che lega la più meridionale delle nostre isole con la terra d'Africa. Vi giungemmo al mattino.
Dopo aver pianificato l'itinerario ed aver più volte ribadito l'intenzione di viaggiare di notte, onde evitare insolazioni africane, ci ritrovammo invece ogni santo giorno ad intraprende la nostra marcia alle12 in punto, A.M. naturalmente, chiusi nella piccola vettura con i finestrini rigorosamente serrati per evitare che il rovente scirocco ci ustionasse.
I miei quattordici anni di età mi impedivano di guidare l'automobile legalmente, così spesso mi occupavo d'altro. Mi assunsi il compito di raccogliere in un apposito barattolo il nugolo di smunte mosche africane che ad ogni sosta invadevano l'abitacolo, esercitando la doppia funzione di liberare la vista della strada ed occupare le lunghe ore che i nostri 90 KM/h ci imponevano per spostamenti anche brevissimi.
Dopo aver attraversato la Tunisia e l'Algeria ci avvicinammo finalmente al Marocco. Sulla strada verso il confine vedemmo ad un certo punto una nuvola di polvere che in direzione opposta alla nostra si avvicinava. Ci stupimmo reciprocamente quando riconoscemmo, nel mezzo del nulla più assoluto, quattro fiorentini che su due vesponi impolverati stavano percorrendo il nostro stesso itinerario in senso contrario. Ci fermammo e passammo qualche ora insieme scambiandoci le rispettive impressioni, e scherzando su quelle che noi otto italiani avremmo suscitato in un qualche turista stile Valtur.
Entrati in Marocco ci accampammo in una specie di oasi dove imparammo a bere il thé alla menta sgranocchiando tocchi di zucchero. Era il periodo del Ramadan e tutti i mussulmani, in osservanza del mese di digiuno, fingevano durante il giorno di non mangiare né fumare, per scatenarsi dopo il tramonto in feste gastronomiche e danzanti. Ci adeguammo a quei ritmi passando tutte le notti a festeggiare.
Molta musica, molto henné, molto cous-cous. Di frequente venivo scambiato per un locale che accompagnava turisti europei e c'era chi si ostinava a parlarmi arabo convinto che non volessi dividere le "prede conquistate”. Susanna, l'unica fanciulla del gruppo, era oggetto di molte attenzioni e più di una volta ci vennero offerti cammelli ed altri gadgets per ... abbandonarla ad un destino alternativo. Stefano, invece, venne “venduto” da un gruppo di arabi ad un altro gruppo di arabi originari della regione di Ketama. Dovemmo raccatarlo su delle strade di montagna e tirarlo dentro la nostra incandescente vettura, strappandolo ad un gruppo di persone che già se lo contendeva.
L’incontrollabile dissenteria che mi colse, come di consueto ad ogni viaggio, mi rese, per le mie continue soste bordo strada, facile bersaglio delle attenzioni dei contadini locali. In una occasione, questi coltivatori ci invitarono nella loro casa. Grande fu il loro stupore quando al mattino videro intorno alle nostre tende, giusto fuori dalla loro abitazione, la devastazione delle mie evacuazioni sulle loro fiere piante di cannabis.
Ricordo una notte di bagordi in cui tutti suonavano tamburi ed intonavano cori. Sarebbe poco veritiero affermare che fossimo del tutto sobri e nell'euforia della festa ci disponemmo ad essere tatuati secondo l'antica usanza berbera. Il ritmo era di stampo decisamente subsahariano con quell’incedere di 6/8 che ipnotizza, unito però al dolce melismare delle voci tipicamente maghrebine. Un vecchio venne con una pietra e mentre i tamburi sollecitavano i danzatori, iniziò a sbriciolarla con dell'acqua. Ne venne fuori una sorta di pappetta scura che venne disposta sul disegno tratteggiato sul mio braccio. Venimmo circondati dai suonatori che ci sembrò dedicassero i loro canti e le loro attenzioni al nostro piccolo rito. L’uomo prese un ago che sterilizzò con del fuoco (ma la pietra?) ed iniziò a bucare la pelle così da far fuoriuscire del sangue che impregnava di sé la scura pappetta. Questa diventò crosta e dopo una settimana cadde, lasciando, ahimè, uno sbiaditissimo sole che era il disegno del tatuaggio. Durante tutta la dolorosa operazione io e Susanna, gli unici due matti ad aver accettato di farci bucare, suonavamo con la mano rimasta libera un tamburo che era posto tra di noi. Seguivamo il ritmo che ci distoglieva dalla fastidiosa "puntigliosità" dell'uomo, e cantavamo, anche, nel desiderio di abbandonarci a quella sorta di ritualità improvvisata.
Quando rientrammo in Italia, al confine, il doganiere italiano, un napoletano verace ci disse" voi venite dal Marocco? e allora tenite l'ashish! ...solo che è ora di pranzo e io nun tengo voglia e perquisì a vettura, perciò jatevenne e buon divertimento".
Già ...peccato non averci pensato!
(1999 Cous Cous n° 8)
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